CASI PER TUTTI

Casi per tutti

Dalla separazione all’ esecuzione, passando per il TFR

Dopo quasi vent’ anni di matrimonio un avviato professionista lascia la moglie ed i figli adolescenti per una giovane collaboratrice e chiede la separazione .
La moglie, che ha sostenuto la famiglia finché il marito non ha conseguito la laurea e poi ha collaborato con lui nell’ avvio ed il consolidamento della professione, è umiliata e frustrata: non ha più un proprio lavoro e si trova senza proventi. 
Il Tribunale assegna alla moglie l’ abitazione familiare – di proprietà di entrambi - e le riconosce un assegno per il mantenimento suo e dei figli.
Nonostante la strenua opposizione del marito la ex moglie riesce a mantenere le stesse condizioni (abitazione e mantenimento per sé e per i figli) anche a seguito del divorzio.
L’ex marito però promuove un’ azione di divisione della proprietà dell’ abitazione in cui il nucleo familiare vive, e, poiché la ex moglie si oppone, non avendo dove altro andare, giunge a metterla all’ asta.
Nel frattempo, la ex moglie è venuta a sapere che l’ex marito ha maturato la pensione ed incassato il TFR, per cui propone l’ azione per vedersi riconosciuta la quota del trattamento di fine rapporto in proporzione alla durata del matrimonio fino al divorzio.
L’ex marito nega, si oppone, afferma di aver ricevuto un premio, ma nessun TFR. In causa viene accertato che il premio incassato dall’ ex marito alla fine della sua professione ha natura di TFR, cosicché l’ex marito viene condannato a corrisponderne una quota alla ex moglie.
Quest’ ultima incassa appena in tempo la somma sufficiente ad acquistare la quota di proprietà dell’ex marito dell’ abitazione messa all’ asta: quasi senza rendersene conto ha utilizzato a quel fine il denaro proveniente dal TFR dell’ex marito, ed ora non teme più di dover lasciare l’ abitazione.
Tante battaglie: dalla separazione al divorzio, alla causa per la divisione della proprietà, alla paventata vendita all’ asta, alla causa per la quota del TFR spettante al coniuge titolare di assegno divorzile, ma alla fine un ottimo risultato.

Prima l’ incubo del licenziamento in tronco, poi la reintegra ed infine la pensione

Dopo trent’anni di dedizione al lavoro, la grossa azienda licenzia in tronco il proprio dipendente, ritenendolo responsabile di aver irrimediabilmente violato il reciproco patto fiduciario, perché egli, affetto da una patologia per la quale talvolta è stato ricoverato in ospedale e quindi assente dal lavoro, è stato visto praticare sport nel tempo libero. L’ azienda sostiene che se il lavoratore pratica lo sport, significa che la sua salute è migliorata, ed inoltre praticare quello sport la pregiudicherebbe; poiché il lavoratore avrebbe taciuto un tanto all’ azienda, che dopo l’ ultimo ricovero lo ha adibito a lavori meno gravosi, non è più degno di fiducia. 
Il lavoratore si sente sull’ orlo della disperazione ed impugna il licenziamento sostenendo la propria buona fede: causa della sua malattia invalidante è il tipo di lavoro svolto, non l’ esercizio sportivo, che pratica amatorialmente quando le sue condizioni di salute glielo consentono. Anzi, già appassionato sportivo e promotore di incontri anche all’ interno dell’ azienda, nel tempo ha mantenuto quell’ unico sport, mai sconsigliato dai diversi specialisti cui si è rivolto.
Il medico legale incaricato dal Giudice accerta che la malattia che affligge il lavoratore alterna stati di dolore acuto a stati di benessere, e che non è certo che la pratica sportiva amatoriale incida sulla sua salute.
Tuttavia, il Giudice si discosta dall’ opinione del medico ed afferma che quello sport, invece, senz’ altro pregiudica la salute del lavoratore, e che quindi egli avrebbe dovuto astenersene per preservare condizioni di salute tali da consentirgli di svolgere il suo lavoro; quindi legittimamente l’ azienda l’ ha licenziato, essendo venuta meno la fiducia per il comportamento irresponsabile e la malafede del lavoratore.
Questi propone appello, portando all’ attenzione della Corte tutti gli elementi acquisiti nel giudizio di primo grado che attestano la caratteristica altalenante della malattia, la dedizione del lavoratore, la sua buona fede. Con una sentenza esemplare la Corte, accogliendo la tesi del lavoratore, statuisce che il Giudice di primo grado ha errato perché ha formato la propria decisione discostandosi dai fatti provati in causa ed anzi ha interpretato il risultato della perizia medico legale in modo forzato.  
L’ azienda viene condannata a reintegrare il lavoratore nel proprio posto di lavoro ed a corrispondergli un risarcimento del danno pari a tutte le retribuzioni ed i contributi persi dal licenziamento alla sentenza. 
L’ azienda paga ma propone ricorso per cassazione. All’ udienza a Roma il Giudice relatore travisa i fatti, ed afferma che il lavoratore praticava lo sport mentre era assente dal lavoro per malattia: un colpo al cuore per l’avvocato, che però riesce a far comprendere alla Corte che il caso è diverso: il lavoratore praticava lo sport come suo diritto nel tempo libero e nei momenti in cui era in buona salute. Mentre l’avvocato accorato espone i propri argomenti il Giudice relatore si affanna a rileggere il fascicolo, ed infine, ricredutosi, rigetta il ricorso dell’ azienda.
Forte del risultato, il lavoratore intraprende una trattativa con l’ azienda, che infine paga i contributi mancanti ed il lavoratore giunge così felicemente alla pensione.  
Ora pratica serenamente il proprio amato sport.

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