Dopo trent’anni di dedizione al lavoro, la grossa azienda licenzia in tronco il proprio dipendente, ritenendolo responsabile di aver irrimediabilmente violato il reciproco patto fiduciario, perché egli, affetto da una patologia per la quale talvolta è stato ricoverato in ospedale e quindi assente dal lavoro, è stato visto praticare sport nel tempo libero. L’ azienda sostiene che se il lavoratore pratica lo sport, significa che la sua salute è migliorata, ed inoltre praticare quello sport la pregiudicherebbe; poiché il lavoratore avrebbe taciuto un tanto all’ azienda, che dopo l’ ultimo ricovero lo ha adibito a lavori meno gravosi, non è più degno di fiducia.
Il lavoratore si sente sull’ orlo della disperazione ed impugna il licenziamento sostenendo la propria buona fede: causa della sua malattia invalidante è il tipo di lavoro svolto, non l’ esercizio sportivo, che pratica amatorialmente quando le sue condizioni di salute glielo consentono. Anzi, già appassionato sportivo e promotore di incontri anche all’ interno dell’ azienda, nel tempo ha mantenuto quell’ unico sport, mai sconsigliato dai diversi specialisti cui si è rivolto.
Il medico legale incaricato dal Giudice accerta che la malattia che affligge il lavoratore alterna stati di dolore acuto a stati di benessere, e che non è certo che la pratica sportiva amatoriale incida sulla sua salute.
Tuttavia, il Giudice si discosta dall’ opinione del medico ed afferma che quello sport, invece, senz’ altro pregiudica la salute del lavoratore, e che quindi egli avrebbe dovuto astenersene per preservare condizioni di salute tali da consentirgli di svolgere il suo lavoro; quindi legittimamente l’ azienda l’ ha licenziato, essendo venuta meno la fiducia per il comportamento irresponsabile e la malafede del lavoratore.
Questi propone appello, portando all’ attenzione della Corte tutti gli elementi acquisiti nel giudizio di primo grado che attestano la caratteristica altalenante della malattia, la dedizione del lavoratore, la sua buona fede. Con una sentenza esemplare la Corte, accogliendo la tesi del lavoratore, statuisce che il Giudice di primo grado ha errato perché ha formato la propria decisione discostandosi dai fatti provati in causa ed anzi ha interpretato il risultato della perizia medico legale in modo forzato.
L’ azienda viene condannata a reintegrare il lavoratore nel proprio posto di lavoro ed a corrispondergli un risarcimento del danno pari a tutte le retribuzioni ed i contributi persi dal licenziamento alla sentenza.
L’ azienda paga ma propone ricorso per cassazione. All’ udienza a Roma il Giudice relatore travisa i fatti, ed afferma che il lavoratore praticava lo sport mentre era assente dal lavoro per malattia: un colpo al cuore per l’avvocato, che però riesce a far comprendere alla Corte che il caso è diverso: il lavoratore praticava lo sport come suo diritto nel tempo libero e nei momenti in cui era in buona salute. Mentre l’avvocato accorato espone i propri argomenti il Giudice relatore si affanna a rileggere il fascicolo, ed infine, ricredutosi, rigetta il ricorso dell’ azienda.
Forte del risultato, il lavoratore intraprende una trattativa con l’ azienda, che infine paga i contributi mancanti ed il lavoratore giunge così felicemente alla pensione.
Ora pratica serenamente il proprio amato sport.